Un bosco memorabile: Arciano
(di Enrico De Falco)
In moltissimi testi, e non di rado in opere di un certo impegno storico che vanno al di là del manuale scolastico, si legge che Annibale nel 216 a.C., vinto a Canne presso il fiume Ofanto l'esercito romano al comando dei consoli Terenzio Varrone ed Emilio Paolo, il quale ultimo trovò la morte sul campo con circa ventimila tra soldati e ufficiali, puntò verso la Campania e pose i quartieri militari nell'agro di Capua, oggi Santa Maria Capua Vetere. I suoi soldati, fiaccati in detta città da un tenore di vita fatto di mollezze e di lussuria - i famosi ozi di Capua - l'avrebbero obbligato a ritornare in Africa troncando un'impresa che era iniziata con brillanti risultati. Nulla di più inesatto, ben altre essendo le vicende che emergono dalla lettura delle fonti storiche, e particolarmente dal quarto e dal settimo libro della terza deca dell'opera « Ab urbe condita » di Tito Livio.
Il generale cartaginese, che era nato in Sicilia al tempo del dominio punico sull'isola, e come tale si sentiva per metà un italico, aveva ideato un piano tutto particolare mirante a sollevare le principali popolazioni della penisola (Padani, Piceni, Sanniti, Campani, Siculi) allo scopo di creare una federazione afro - siculo - italica guidata da Cartagine; non era venuto in Italia coll'intento di occupare Roma, non avendo il suo esercito una struttura adeguata a lunghi e difficili assedi. Pertanto, anche se mancò una seconda battaglia campale tipo Canne, molti furono gli scontri e i combattimenti che durante i suoi spostamenti egli dovette sostenere in Campania; più di tutti emerge quello nell'agro nolano: vediamolo.
Agli inizi del 215 a.C. mentre il proconsole Tito Sempronio Gracco supera Annone a Benevento, Annibale, dopo un inutile tentativo di occupare Napoli e Puteoli, ne danneggia il contado e muove verso Nola per assediarla; il console Claudio Marcello, venuto a conoscenza di quel movimento ad opera di informatori, fa venire da Suessola, ov'era alloggiato con le sue truppe, il vicepretore Pomponio, coll'intento di prepararsi contro il nemico in vista di una battaglia campale che cancellasse l'onta di Canne. E nel profondo della notte manda Claudio Nerone col nerbo della cavalleria fuori di Nola, per quella porta che era la più lontana dal campo avversario, coll'ordine di occultarsi in un bosco alle spalle dei nemici per venir loro addosso non appena vedesse o sentisse dell'inizio della battaglia. A Nerone non fu possibile mandare ad effetto tal ordine non tanto per brevità di tempo quanto per errori di strade: inoltratosi in un grosso bosco a pochissimi chilometri da Nola, il mattino dopo stentava ad uscirne. Allora fece voto a Giano, divinità italica da cui dipendeva l'origine e la fine di ogni avvenimento, e rappresentata perciò con le chiavi che materialmente aprono e chiudono, di aprirgli la mente perché trovasse la via giusta: avrebbe dedicato quel bosco al suo culto (Arciano = arx Iani, cioè altura di Giano). Purtroppo il miracolo non si verificò, e si giunse alla battaglia di Nola in assenza dei cavalieri che non erano sopravvenuti a tempo opportuno. In quell'evento furono uccisi più di duemila cartaginesi, e meno di quattrocento romani: Marcello, benché i suoi vincessero, vista l'assenza della cavalleria non ebbe l'ardire di inseguire il nemico che si ritirava, e fece suonare a raccolta. Tornato Nerone al tramonto del sole dopo aver invano affaticato uomini e cavalli senza mai vedere la faccia di un nemico, fu ripreso gravemente dal console Marcello, il più duro e crudele dei militari repubblicani: gli rimproverava che per colpa sua quel dì non si era reso ai nemici il cambio della disfatta ricevuta a Canne. Al buon Claudio Nerone, poiché alla fin dei conti quello era stato il primo combattimento vinto dall'esercito romano contro Annibale, parve che ugualmente Giano meritasse che quel bosco gli fosse dedicato e che i soldati, a guerra finita, colà elevassero al nume un'edicola, un tempietto che ne contenesse la statua e la proteggesse dalle ingiurie del tempo. Secondo alcuni il termine Arciano, da arcus Iani, più che al bosco si riferirebbe invece proprio al sacrario del dio bifronte che sorgeva ai piedi della selva, presso Mugnano.
All'uopo giova riportare un gustoso episodio, si pure marginale, riferitomi durante gli anni del secondo dopoguerra dall'allora anziano don Aniello Sales, parroco della chiesa dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo. Teodoro Mommsen, il celebre filologo, giurista e storico della romanità, verso la fine del secolo scorso era venuto in visita ai luoghi di interesse archeologico del Nolano; in considerazione del fatto che parlava bene il latino, e piuttosto male l'italiano, gli era stato dato come guida un sacerdote della frazione Purgatorio, docente di latino e greco al seminario di Nola. Dopo la visita ad alcuni luoghi di Avella, tra cui i noti resti dell'anfiteatro, su desiderio del dotto
tedesco i due si mossero alla volta del bosco Arciano, di dove, dopo una breve visita, tornarono nell'abitato di Baiano; strada facendo il sacerdote salutò una persona. « Quis est ille homo? » chiese incuriosito Mommsen; e l'altro di rimando « est medicus conductus ».
« Maxime erravisti - ribattè il tedesco - est medicus salariatus ». Evidentemente non ne poteva più; chi sa quante cavolate erano uscite fuori dal latino del sacerdote docente della frazione Purgatorio.
(Dal libro "Baiano" - Origine, Sviluppo e Vicende di un Casale di Avella - Laurenziana, Napoli, 1985, pp. 25-28)